martedì 30 luglio 2013

LE CAMPANE DI SANTA MARIA MAGGIORE DI ATENA

(Pubblico qui di seguito una ricerca effettuata nel 2010 in occasione delle benedizione della nuova campana che andava ad aggiungersi alle altre tre già esistenti)


Il campanile a pianta quadrata della Chiesa Madre di S. Maria Maggiore di impianto medievale ma ristrutturato nel 1751 ad opera dell’arciprete Sabini del Sole conserva al suo interno tre antiche campane, fuse in periodi diversi e con una storia molto interessante. Secondo alcune tradizioni le campane comunicano con l’Eterno, levando alta la voce dell’uomo. Secondo altre, invece, la campana è ‘’la voce di Dio’’. Comunque, questo strumento è, in tutte le culture il mezzo di comunicazione privilegiato tra divino e umano. Le campane hanno però anche il compito molto più terreno di comunicare eventi importanti alla comunità. In tempi in cui non esistevano mezzi di comunicazione di massa e giornali, le campane svolgevano il ruolo della ‘’radio’’ locale: mediante linguaggi in codice musicale, spesso specifici delle singole comunità, si potevano annunciare le nascite, i decessi, l’agonia di un malato, i matrimoni, le guerre oppure le catastrofi climatiche. I campanili fungevano, poi, anche da vere e proprie postazioni di comunicazione tra comunità vicine, passandosi l’un l’altro le notizie più importanti e diffondendole così in un’area anche molto vasta. In un inventario della chiesa di S. Maria del 1802 si legge: “La chiesa ha una torre campanaria con tre campane. La più grande è molto antica risalente al 1345.’’ E’ una notizia molto interessante perché di questa campana se ne riparlerà a metà ottocento, in una santa visita pastorale che ci dice che su questa campana c’era anche un’iscrizione: AVE MARIA GRATIA PLENA DOMINUS TECUM BENEDICTA TU IN MULIERIBUS.  Questo antico bronzo, probabilmente, venne fuso nel 1897 quando l’arciprete Alfonso de Marcò ne fece costruire una nuova. La campana, di dimensioni ragguardevoli, è alta circa 100 cm e larga 90 nella parte inferiore (labbro), mentre il peso non ci è dato saperlo. La decorazione esterna è costituita da una rigatura in rilievo che attraversa la campana nella sua circonferenza che racchiude un iscrizione in capitale: COSTRUITA A CURA DELL’ARCIPRETE ALFONSO DE MARCO + ANGELO ACCETTA E FRANCESCO TARANTINO DA PADULA FECE 1897. Sotto l’iscrizione, sempre tutt’intorno, una elegante decorazione. L’autore, ossia il fonditore, è indicato chiaramente nell’epigrafe, il quale risulta essere un rappresentante di una delle tante botteghe di ‘’campanari’’ presenti in Campania. Nella parte inferiore, invece, sono incise due immagini: la Vergine Santissima Assunta, a cui è dedicata la campana e titolare della parrocchia, e un ostensorio raggiante, simbolo della confraternita del Sacramento che contribuì all'opera. Nella parte più alta del campanile, precisamente nella cupola, vi sono altre due campane. La prima, di modeste dimensioni è rivolta verso il Vallo di Diano. Nella parte superiore presenta una ricca decorazione con angeli e motivi floreali. Presenta un iscrizione in capitale in latino: AVE MARIA GRATIA PLENA A.D. 1789. Nella parte centrale è incisa l’immagine dell’Immacolata con angeli. La seconda campana, invece,  è rivolta verso l’abitato ma è più piccola ed molto simile nella decorazione alla prima: infatti presenta la stessa data, 1789, ma con la seguente iscrizione: SANCTA MARIA ORA PRO NOBIS. 

La nuova campana
Questa nuova campana voluta e offerta dall’arciprete don Michele Totaro alla Parrocchia di S. Maria Maggiore e all’intera comunità di Atena Lucana è stata fusa dalla premiata fonderia ‘’SAIE CAMPANE’’ di Striano (Napoli). La campana andrà ad arricchire il campanile di S. Maria Maggiore e suonerà a distesa accanto all’antica grande campana già presente. La campana è dedicata alla Vergine Maria e all’apostolo S. Giacomo, di cui don Michele è molto devoto. La decorazione esterna è costituita da una ricca decorazione a forme geometriche e floreali che circonda tutta la parte superiore. Nella parte centrale reca l’incisione della Vergine Maria della Colomba, immagine presa da un antico medaglione argenteo appartenuto all’omonima confraternita. Sotto un iscrizione in latino composta da Francesco Magnanti ricorda l’evento. Ai lati due angeli che sorreggono una stella che ricorda Campostela, patria dell’apostolo; dietro, invece, un’immagine di una conchiglia, simbolo appartenuto ai pellegrini e all’apostolo S. Giacomo.
                                                                

                                                                D. O . M
DEIPARAE SEMPER VIRGINI MARIAE
S. IACOBO APOSTOLO
D. MICHAEL ARCHIPRESBYTER TOTARO
CUM SUA FAMILIA
AD PERPETUAM MEMORIAM FECIT
DIVINAQUE GRATIA ADIUVANTE
PEREGIT
ANNO DOMINICAE INCARNATIONIS
MMX

La traduzione:

A DIO OTTIMO MASSIMO

ALLA GENITRICE SEMPRE VERGINE MARIA
A S. GIACOMO APOSTOLO
DON MICHELE ARCIPRETE TOTARO
CON LA SUA FAMIGLIA
FECE A PERPETUA MEMORIA
E LA COMPI’ CON L’AIUTO DELLA GRAZIA DIVINA
NELL’ANNO DELL’INCARNAZIONE DEL SIGNORE
2010  



Foto delle campane:


 Campana Maggiore del 1897
 Campana Maggiore. Particolare dell'ostensorio, simbolo delle Confraternita del SS. Sacramento
 Campana Maggiore. Particolare dell'Assunta, titolare della parrocchia.
 Campana Maggiore. Particolare della decorazione superiore e iscrizione
 Campana piccola 1 del 1789. 
 Campana piccola 2 del 1789
 Particolare della campana piccola 2 con decorazioni e datazione
 Nuova campana benedetta il 1 luglio 2010. Iscrizione
 Nuova campana. Particolare del rilievo della Vergine della Colomba racchiuso in un clipeo
 Nuova campana. Particolare della stella che simboleggia Campostela, patria dell'apostolo San Giacomo
 Particolare della nuova campana. Rilievo e parte di iscrizione
Nuova campana

giovedì 23 maggio 2013

A PROPOSITO DEL TEMPIO DI GIOVE...



Muse di Pieria,che date la gloria coi canti,
Zeus qui ora cantate, al padre vostro inneggiando:
per opera sua gli uomini sono illustri   e oscuri,
noti e ignoti,  a piacimento di Zeus grande.
Facilmente  egli dona la forza, facilmente abbatte chi è forte,
facilmente  umilia chi è grande e l'umile esalta,
facilmente raddrizza chi è storto e dissecca chi è florido,
Zeus che tuona profondo ed abita le eccelse dimore.
Ascoltami, a me guardando e porgendo l'orecchio: con giustizia le sentenze raddrizza ,
tu; io a Perse voglio alcune verità raccontare
(Esiodo, Le opere e i giorni, Proemio)



E' da qualche mese che non aggiorno il mio blog. Ci siamo lasciati con l'argomento ''epigrafi romane'' e non ho avuto modo - data la mancanza di tempo - di argomentare e proporre nessun altro aspetto della storia di Atena. Stamattina però, ho avuto uno spunto per poter scrivere altre due righe riallacciandomi così all'ultimo argomento proposto. Vorrei continuare con il filone del corpus epigrafico, molto consistente per la verità, che ci permette di ricostruire aspetti non solo onomastici ma anche architettonici, come templi o edifici pubblici che ornavano l'antica Atina romana. Lo spunto a cui mi riferisco è indirizzato ad un mio passaggio quasi casuale per la piazza. Riguardando con maggiore attenzione palazzo Caporale ho avuto modo di ammirare l'intera costruzione edificata nel 1868 da Carlo, farmacista e figlio di Feliciano Caporale. Nonostante avessi posto l'attenzione all'intero complesso il mio occhio è stato attratto dalla testata d'angolo sul lato sinistro, composta grossi blocchi squadrati  e scalpellati. Se credere si vuole alle parole del Curto, narratore di memorie antiche, il palazzo sorge su un'area dai contenuti archeologici. Riporto le sue parole a tal riguardo: ''Invero, innanzi al palazzo principesco della famiglia Caracciolo, al largo Garibaldi, esisteva grande spiazzo, dove all'epoca baronale, vi si facevano girare i cavalli per istruirli. Lì vicino, il defunto sig. Carlo Caporale e tal Federico Volpe, vi si censirono dal Comune un'area da fabbricarvi un palazzetto per abitazione, e , trovandosi il suolo bastantemente franoso, fu bisogno iscavare profondamente da oltre a dieci metri per farvi le fondazioni dei muri maestri. Accadde che vi si rinvennero, a centinaia, dei grossi blocchi affaccettati, della dimensione cubica in media un metro e più, posti alla rinfusa in tanti mucchi, fra grande quantità di tufacea calcina, e sopra un suolo a grosso mosaico a piccoli pezzi di marmo misto; e tutto, come avessero appartenuto a grande circolare edificio... Il Caporale fabbricò tutto il suo palazzo con quella quantità di macigni affaccettati, e servendosi, per la calcina, di quel materiale ferruginoso.''  Ma di quale edificio dell'antichità si tratta? Il Curto prova a dare una sua spiegazione, con molte lacune per la verità e senza nessuna prova storica schiacciante: ''Tutto aveva costituito il Tempio di Giove, semplicissimo nelle muraglie e soglie, l'una sopra l'altra, con poco cemento. Aveva la tettoia piombita e a lunghe tegole; era rotonda con cupole a colonna, delle quali se ne trovarono assai spezzoni.'' Secondo il Curto, dunque, si tratterebbe del tempio di Giove dove - continua - ''la tradizione costante antica del paese, durata da secoli, ne indica anche il sito, nel centro tra la città e l'acropoli. Ed è risaputo da tutti gli storici che nelle sole cospicue città, come la nostra di Atina, potevasi avere il Tempio di Giove, nel sito più nobile dell'abitato.'' Per il Curto e per altri storici (da lui indirettamente menzionati ma di cui non ho riscontrato il nome), i resti archeologici su cui è stato edificato palazzo Caporale sono quelli che in antico formavano la costruzione del romano tempio di Giove. Una tradizione - secondo il Curto -  che non trova riscontro con le fonti storiche documentarie ed epigrafiche a nostra disposizione. Tutto sembra nascere da una consuetudine,  forse orale, e originata da chissà quale racconto, portando a convincersi di un qualcosa che non ha supporto storico. L'iscrizione onoraria a Publio Nanonio Diofante, eretta per volere degli Augustales Atinates,  testimonia il culto per Giove e gli Dei Penati ma non presuppone l'esistenza di un tempio ad essi dedicato, dato che iscrizioni sacre a carattere cultuale potevano trovarsi ovunque. 

IOVI ET
DIS PENATIBUS
P(ubli) NANONI DIO 
PHANTI
AVGVSTALES ATINATES 

Nelle note storiche offerte sempre dal Curto, nella sua celebre opera ''Notizie storiche sulla distrutta città di Atinum Lucana'', l'epigrafe in esame viene spiegata in questo modo: ''il collegio degli Augustali in Atena era composto di quei sacerdoti appunto addetti al tempio di Giove, esistito in Atena, e dove, gran culto professavasi ai Dei Penati, eletti a protettori della Repubblica Atinate. Fra gli Augustali era trapassato Pubblio Nanonio Diofanto, che era il sommo sacerdote del Tempio, avendo in vita voluto tramutarsi l'antico cognome in Diofanto, che viene da Dios Giove, e Faino mostrare, per cui erettagli nel Tempio medesimo la tomba dai suoi colleghi sacerdoti Augustali, che, nell'epigrafe al defunto, vollero fare un omaggio al Dio Giove ed agli Dei Penati... Quest'epigrafe è la chiara dimostrazione della esistenza del tempio di Giove in Atena, senza del quale non poteva esservi il Collegio degli Augustali.'' Gli Augustales o più propriamente Sacerdotes Augustales (Sacerdoti di Augusto) erano un collegio sacerdotale istituito dall'imperatore Tiberio nel 14 d.C. per onorare il culto del Divo Augusto (ossia il divinizzato imperatore Caio Giulio Cesare Ottaviano Augusto)  e della Gens Iulia sull'esempio dei Sodales Titii creati da Romolo. Nei municipia romani (ed Atena era un municipium) gli augustales  raggiungevano il numero di sei e avevano la durata di un anno. Publio Nanonio era molto probabilmente tra costoro e in segno di riconoscenza la confraternita sacerdotale gli innalzò un'epigrafe dedicatoria, invocando gli dei protettori, i Penati e Giove, quest'ultimo massima divinità del pantheon pagano. Nessuna allusione alla presenza di un tempio o edificio dedicato nè a Giove e nè agli dei Penati. L'epigrafe, prima dello spostamento nella taverna del principe dopo il terremoto del 1857 che provocò il  crollo della porta della piazza, era situata nel lato sinistro di quest'ultima, già ricordata nei secoli XVII e XVIII dagli storici Mannelli e Antonini. Per dovere di cronaca è bene precisare dove era situata un tempo la porta della Piazza. Negli Stati delle Anime, essa è menzionata sopra palazzo Spagna; l'arco della porta, forse, si impostava tra il palazzo e la rampa in muratura antica della strada che porta a san Nicola. Lorenzo Giustiniani ne fa particolare memoria nel 1797 quando afferma che dopo aver attraversato il borgo si ha l'adito al paese passando per la porta denominata della Piazza sul cui stipite sinistro si poteva leggere la suddetta epigrafe. Dopo il devastante terremoto del 1857, che mutilò in modo grave il centro storico delle sue secolari memorie, l'epigrafe rotta in due pezzi fu trasferita con altre testimonianze del passato nella taverna del principe (ex falegnameria dei Di Santi, ora Mediateca Comunale) dove il Curto la lesse, convincendosi dell'esistenza del tempio di Giove. Egli era convinto che la vicinanza della porta della Piazza, dove era inserita l'epigrafe, al sito di palazzo Caporale, fosse sufficiente come prova per dedicare quelle antiche rovine, da lui descritte e ritrovate dal Caporale per la costruzione della sua dimora, a un presunto tempio al dio. (''L'epigrafe che venne messa alla tomba del primo sacerdote del tempio di Giove, a nome Diofante, oggi è poco lungi dal sito del Tempio, e siccome in questo, ad uno dei cantoni, si rinvennero ossa umane e vasi lacrimali, così è da ritenersi che la tomba si trovava nell'atrio del Tempio''
In verità un templum Iovis ad Atena è testimoniato in questa epigrafe:

[---] Q (uinti) f(ilius), Pom(ptina), Gall[us --- it]erum, flamen div[i --- tem]plum Iovis de s(ua) p(ecunia) refe[cit]



L'iscrizione in oggetto propone un tal Gallo figlio di Quinto della tribù Pomptina, che dovrebbe essere lo stesso dell'iscrizione n.153 delle Iscriptiones Italiae di Vittorio Bracco (Quinto Statio Gallo), flamine diale (lat. Flamen Dialis), ossia sacerdote preposto al culto di Giove. Il flamine Quinto Statio Gallo restaurò o rifece a proprie spese il tempio di Giove, posto dentro la città di Atina ma di cui, nonostante quest'epigrafe ne citi specificatamente l'esistenza, non si conosce l'esatta ubicazione. Il Bracco propone la collocazione in un punto della campagna verso Cosilinum, ma a mio avviso, quest'ipotesi non mi sembra molto convincente. L'epigrafe di Quinto Statio Gallo è stata ritrovata in località Penniniello, zona facente parte della Profìca, luogo di necropoli di età romana e rientrante (seppur non ancora accettata da qualcuno) nei confini del municipium atinate. Anche in questo caso, dunque, pensare all'esistenza in questo luogo del tempio di Giove mi sembra alquanto improbabile. Il tempio di Giove doveva situarsi nel forum, la piazza della città, documentato ad Atena nell'area della chiesa madre di Santa Maria, dal ritrovamento dei basoli che ne componevano la pavimentazione ad opera dei quattuorviri Marcello e Logismo. Se per la chiesa di Sant'Angelo (ora santuario San Ciro) è stata avanzata la proposta attraverso un'epigrafe in situ  dell'esistenza di un tempio alla Magna Mater perchè di Santa Maria non è stata ritrovata nessuna testimonianza archeologica? Le fondamenta di questa chiesa poggerebbero sulle rovine di un edificio romano?  Non possiamo avere nessuna risposta in merito, almeno per adesso, e queste domande non vogliono creare un alone di mistero. Queste domande devono interrogarci seriamente sulla nostra storia e sull'esatta ubicazione di alcuni edifici in età antica. Forse per certi versi la nostra storia andrebbe riscritta. Il sottosuolo nell'area della chiesa di Santa Maria ci ha restituito soltanto quei pochi basoli che pavimentavano il foro ma nessun edificio in particolare, mentre sappiamo benissimo che la piazza principale della città romana di Atina doveva contenere edifici sacri e pubblici di particolare importanza. 
Possiamo affermare con una certa sicurezza che i resti ritrovati dal Curto per la costruzione di palazzo Caporale non corrispondono al ricercato tempio di Giove e nemmeno l'epigrafe funeraria di Quinto Statio Gallo ne attesta l'esistenza in quel luogo. 
E quei ruderi descritti in maniera così precisa dal Curto a quale edificio appartengono?
Un'idea supportata da altre testimonianze archeologiche me la sono fatta ... Ma per adesso ''la stanca man'' si ferma.

Ringrazio di cuore l'amico Umberto Soldovieri per la foto dell'epigrafe da lui scattata. 


BIBLIOGRAFIA:

CURTO G. B., Notizie storiche della distrutta città di Atinum Lucana dai tempi incerti fino al secolo XIX, Sala Consilina, tipografia De Marsico, 1901, pp. 41-43, 87-88.

BRACCO V., Inscriptiones Italiae, vol. III, fasc. I - Civitates Vallium Sìlari et Tànagri, Istituto Poligrafico dello Stato, Libreria dello Stato, 1974, pp. 82,83 - 108-109.

BRACCO V., I materiali lapidei, in Storia del Vallo di Diano, vol. 1, l'età antica, ed. Pietro Laveglia, Salerno 1981, pag. 260. 




                                                                               
                  

lunedì 4 febbraio 2013

Nuove memorie dal sottosuolo atinate: le epigrafi di età romana.


‘’Il tenimento di Atena è pieno di siffatte tombe antiche; e se ne scavano immense fino ad un metro sotto il suolo. Lo dimostrano le non poche iscrizioni nostre, ritrovate finora, descritte nella parte terza di questo lavoro. In Atena non vi è contadino che anche nello zappare, dove sono macerie, che non trovi dei frantumi di tegole frammiste ad ossa umane, ed oggetti interrati col morto al par di che l’aratro spesso scovre di queste tombe…’’.  Rileggendo con più attenzione quest’opera – Notizie storiche sulla distrutta città di Atinum Lucana – dell’avvocato Giovanbattista Curto, ormai nota e punto di riferimento per chi voglia immergersi nelle pieghe della plurisecolare storia atinate, ho posto la mia attenzione sulla ricchezza archeologica del sottosuolo di Atena Lucana. Forse quasi distrattamente non ci accorgiamo, per chi ha l’abitudine di frequentare il centro storico, di quello che ci circonda. Se a noi non è ancora purtroppo noto quello che il sottosuolo serba nelle sue viscere, è a noi vicino, invece, una raccolta di testimonianze del passato che i contadini, quasi casualmente, hanno recuperato e riutilizzato, a volte impropriamente, per le proprie costruzioni. Nonostante la dispersione di gran parte del patrimonio archeologico, Atena conserva un volto oserei dire ‘’romano’’ ad opera delle poche e ancora non conosciute iscrizioni latine, che in origine dovevano formare un vero e proprio patrimonio culturale, non solo per la loro estetica bellezza artistica ma per la presenza di multiformi idiomi, di personaggi che hanno dato lustro alla città antica con le loro opere e alla vitalità di quel periodo che ci appare come aureo.
Come ho già detto in precedenza, per chi è abituato a frequentare il centro antico non può non accorgersi di tale presenza: essa è costante, non solo per la presenza di questi marmi secolari, ma anche dai toponimi e dal modus costruendi delle abitazioni. In una delle mie quotidiane passeggiate, accompagnato da amici, che come me studiano da qualche anno il territorio e condividono idee e progetti, mi imbatto in un reperto che non avevo mai visto e che ha destato la mia curiosità: un’epigrafe di età romana. All’inizio, in verità, pensavo non si trattasse di una vera e propria scoperta, ma di un ritrovamento di un reperto che già precedentemente era stato studiato e poi smarrito e non più rintracciato. Consultando il CIL (Corpus Iscriptionum Latinarum) di Theodor Mommsen, il già citato testo del Curto, l’Istoria di Atena Lucana del dottor Michele Lacava, non c’è traccia di questa epigrafe e sembra non essere stata trascritta e annoverata nel corpus epigrafico. Volendo dare, inoltre, anche un’occhiata nell’appendice dedicato alle epigrafi false e sospette, questa iscrizione non compare. Mutilata nella parte superiore è possibile leggere con qualche difficoltà il resto del testo:

   [MARCE] LLA PO [SUER] UNT
QUI VIXIT ANNIS V M [ensis] XI  D[ies] XXIII



Con certezza possiamo definirla sepolcrale in quanto ci informa dell’età vissuta della fanciulla di nome Marcella (qui vixit/che visse) deceduta alla tenera età di cinque anni. Purtroppo non siamo a conoscenza dei nomi che curarono l’erezione del monumento sepolcrale. Con molta probabilità si tratta dei suoi genitori in quanto ''posuerunt'' è al plurale. La tendenza e la cura nel riportare gli anni, i mesi e i giorni era riservata perlopiù a persone che morivano in tenera età e la frequenza crebbe negli ultimi secoli di vita dell’impero romano e nelle prime iscrizioni cristiane (III – IV secolo d.C.). Con molta probabilità questa iscrizione doveva far parte di un monumento sepolcrale e il contenuto, come del resto la sua funzione, può essere diverso se essa si trova all’esterno o all’interno di un edificio sepolcrale, se è destinata ad essere letta da un passante o solo chi ne aveva il diritto di penetrare all’interno. La decontestualizzazione di questo reperto non ci permette, almeno per adesso, di dire molto. Non si hanno notizie del luogo di ritrovamento del cippo e nemmeno della relativa tomba e pertanto è difficile argomentare su questo reperto e avere ulteriori notizie.

Appare, invece, molto più interessante un’altra epigrafe, anche questa inedita e non presente ancora in nessun testo, fu ritrovata in piazza Vittorio Emanuele qualche anno fa, quando l’area fu interessata da lavori di scavo per far passare le condutture del gas metano. Furono ritrovate due iscrizioni (di cui solo una riuscii a ricopiare), frammenti di una statua e altro materiale archeologico di grande importanza. Fortunatamente riuscii a ricopiare una delle due epigrafi in quanto in un primo momento furono allocate sotto la casa comunale in attesa di conservarle all'interno dei locali preposti alla custodia. Il testo dice:

GENIO MUNICIPI ATINATIUM
ARAM LATINIUS LUCANUS PATER
POSUIT LATINIUS LUCANUS FILIUS
SCRIPSIT IT DIDICAVIT  S P
L D D D

Genio Municipi Atinatium/aram Latinius Lucanus pater/posuit Latinius Lucanus filius/scripsit it[erum] didicavit s[ua] p[ecunia]/ L[ocus] d[atus] d[ecreto] d[ecurionum]



Traduzione: Al Genio del Municipio Atinate Latinio Lucano padre pose l'altare; Latinio Lucano figlio scrisse e dedicò di nuovo a sue spese. Luogo dato per decreto dei decurioni.


Questa epigrafe arricchisce il panorama cultuale dell’antica città romana di Atina.  Affermava Servio (Commento all'Eneide, 5, 95)  che nullus locus sine Genio, (nessun luogo è senza un genio), ossia senza uno spirito o nume tutelare che custodiva le sorti di una famiglia, di una persona o come in questo caso di una città. Nella religione romana il Genio (lat. Genius, ii) è un nume tutelare ed esso nasce con l’individuo, accompagnandolo e dirigendo le sue azioni nel corso della vita. L’attribuzione del Genio si estese anche alle famiglie (Genio del pater familias), allo Stato, alle province, ai collegi, alle unità militari e il genio dell’imperatore vivente divenne oggetto di culto pubblico con Augusto. La stessa città di Roma, e come anche Atena, aveva un Genio, ricordato dal già citato Servio: Genio urbis Romae sive mas sive femina. La tutela del locus riferibile al genius è uguagliabile, come importanza, alla sua tutela personale. Il genius, infatti, è presente in ogni luogo e svolge un'azione di tutela rivolta sia al singolo individuo sia ad una comunità. La protezione si allarga dall'individuo all'ambiente in cui esso vive dando luogo ad una particolare tipologia di genio: il genius loci. Si può supporre, duenque, che anche Atina aveva il suo genio, un genius municipi che proteggesse la città e a cui era dedicata generalmente un imaginem.
Analoga funzione avevano i Penati e i Lari, spiriti protettori della famiglia e della casa, venerati nella romana Atina in età augustea come è testimoniato da un’altra iscrizione (Iscriptiones Italiae, pag. 82-83). Fervente devoto verso le divinità dell’Olimpo era Latino Lucano (padre), già costruttore di un altare dedicato ad Esculapio, quando era duumviro ed edile della città. (Notizie storiche della distrutta città di Atinum, op. cit. pag. 86-86). Publio Latino Lucano ricordato quale edificatore dell'ara al dio-medico dei corpi Esculapio ricopriva una carica nella quaestura alimentorum, che ad Atìna distribuì alle famiglie indigenti il necessario dopo che Nerva e Traiano introdussero l'umanitaria istituzione degli alimenta Italiae. Con molta probabilità questo altare al Genius era all’interno di un tempio, edificato da Latino Lucano padre e restaurato nuovamente e dedicato a proprie spese (sua pecunia) dal figlio dall'omonima onomastica. La suddetta epigrafe fu dettata da Latino Lucano figlio in quanto si afferma che scripsit (scrisse), per commemorare la celebre opera del padre, edificatore e mecenate di templi sacri. Dal ritrovamento effettuato, come ho già detto in precedenza, fu possibile individuare anche resti di basi composite e blocchi di pietra, facenti parte, forse, dell’antico edificio templare. Il luogo dato per decreto dei decurioni (Locus datus decretum decurionum) avvalora l’ipotesi dell’esistenza di un tempio dedicato al Genio del Municipio di Atina, un locus sacro, dove era indispensabile un decreto da parte dei funzionari – i decurioni - che si occupavano di amministrare e governare il municipio atinate. Il testo presenta anche un termine latino dai chiari aspetti arcaicizzanti - didicavit - (dedicò) al posto del consueto dedicavit. 

Ancora una volta il sottosuolo atinate ci consegne delle memorie... a quando un'accurata attenzione? 

sabato 12 gennaio 2013

Modi di vestire nell'arte e nella tradizione: l'abito popolare di Atena Lucana e le sue origini


‘’Le donne vestono quasi alla greca, portando una veste, che le cuopre dalle spalle ai piedi’’.  Con questa breve ma poco esaustiva spiegazione, il geografo Lorenzo Giustiniani nelle sua celebre opera, Dizionario geografico ragionato del regno di Napoli, descriveva il modo in cui vestivano le donne sul finire del Settecento. Anche il Macchiaroli in Diano e l’omonima sua valle, fa cenno all'abbigliamento femminile delle donne atinati ‘’e non ha che poca somiglianza cogli altri paesi limitrofi’’. 

Donna del paese di Atena - disegno conservato a Firenze

Accanto all'idioma dialettale impregnato di influssi grecofoni e forme cultuali tipicamente bizantine, anche il vestiario fino alla seconda metà dell’Ottocento ha conservato orpelli e abiti di chiaro retaggio greco. La lunga veste che copre interamente il corpo della donna, descritto dal Giustiniani, dovrebbe essere una riproposizione del greco chitone, una lunga veste che arrivava fino ai piedi, di lino, costituita da un solo pezzo rettangolare di stoffa, dove i due bordi laterali erano cuciti assieme e quelli superiori di ogni lato erano raccolti sulla spalla e sulla braccia e tenuti assieme da una doppia serie di punti di cucitura e talvolta da fibbie, sì da formare lunghe maniche; su di essa, solitamente, veniva sovrapposta una seconda tunica più corta, da cui il nome di diploidion (veste doppia).  


Tuttavia questa tipologia di abito era utilizzato nelle cerimonie e in particolari occasioni, accompagnato, inoltre, da un altro accessorio: un copricapo a tese larghe, il thòlia, utilizzato per riparare il viso dal sole; le donne utilizzavano anche dei nastri per legare i capelli, detti mitra o raccoglierli entro una reticella chiamata kekryphalos o nella cuffia, sàkkos.

Questi elementi dell’età classica sono ancora presenti in un disegno ottocentesco, il cui originale è conservato presso palazzo Pitti di Firenze, che raffigura una donna del paese di Atena. Quest’abito tradizionale consisteva in una gonna di panno di colore rosso, in un farsetto detto ‘’corpino’’di colore rosso vivo; in un’altra gonna ben più corta di colore blu arricchita nelle estremità da un nastro di color oro che si indossava al di sopra del sottano e veniva agganciato per metà ad un altro tipo di farsetto, tramite fibbie o spilloni, chiamato cintura. Questa cintura poteva essere di colore verde chiaro o scuro o di altro colore e si univa alla seconda gonna con fermagli. Questo pezzo si univa alla gonna di sopra e formava un’apertura nel davanti a forma di ‘’V’’, lasciando intravedere il sottano. La camicia di color bianco era impreziosita da ricami sia intorno al collo che alle maniche, fuoriuscendo dal farsetto a mo’ di manicotti a doppio risvolto. Inoltre intorno al collo veniva appoggiato un fazzoletto di seta arricciato (u maccaturu a pizzu) che andava a coprire il collo e la parte davanti. Anche ‘’u vandisino’’ era un elemento indispensabile che andava a coprire il sottano nei momenti di lavoro e operosità all'interno delle mura domestiche. Sul capo veniva poggiato un elaborato panno rettangolare con delle falde laterali che dovevano proteggere dal freddo o in estate dal caldo. 





Foto del 1881. Antenati dello scrivente. Particolare: donna con l'abito tradizionale e il copricapo

Le pettinature in voga fino ai primi del Novecento richiamavano forme appartenenti all'età antica: i capelli venivano raccolti all'indietro, nel ‘’tuppo’’ oppure dopo aver realizzato due lunghe trecce, esse venivano fatte girare sul capo e sistemate con forcine o nastri colorati. 

Particolare dell'acconciatura della scultura della Colomba

Per chi poteva permetterselo vi era la possibilità di rendere ancora più accurata la propria immagine mettendo intorno al collo lunghi lacci d’oro (ovvero oro americano con una caratura molto bassa per chi tornava dalle Americhe) che terminavano con medaglie o ciondoli dove all'interno erano conservate le foto di un caro estinto. Gli orecchini con pendente ornavano invece i lobi delle orecchie. L’importanza dell’abbigliamento e dell’intero corredo che la donna doveva fornire come dote nel momento del contratto matrimoniale con i genitori dello sposo era indispensabile per sottolineare anche lo status sociale che ella occupava. Emblematico è il caso della ricca dote offerta allo sposo di Colombina De Marco figlia di Carmine e Irene Fressola, il 16 agosto del 1909. Nel documento vergato dal consorte della De Marco che dichiarava di aver ricevuto gli ‘’oggetti mobiliari come corredo della futura mia sposa, e distintamente numerati dai suoi genitori’’ vi sono elencati camicie, sottani, giacche, scialli e numerosi ‘’anella’’ e pendagli in oro. I principali eventi della vita familiare, come la morte di un congiunto o il matrimonio, trovano in effetti non di rado espressione attraverso l’abito. Alcuni indumenti o accessori possono caricarsi di particolari significati rituali. Era usanza, inoltre, offrire al futuro sposo una camicia confezionata dalla fidanzata, in segno di appartenenza e fedeltà coniugale.


Foto di fine Ottocento. Processione della Colomba: donne con centa votiva


Anche il colore degli abiti aveva un suo motivato perché: è da ipotizzare che il colore rosso, come in altre zone d’Italia, fosse considerato il più adatto per le nozze. L’abito di Atena presenta caratteristiche che rientrano in questa ipotesi. Il lungo sottano di colore rosso poteva essere utilizzato dalla donne atinati quale abito nel giorno delle nozze e poi successivamente arricchito da altri accessori che completavano il vestimento. Questo tradizionale utilizzo di colore era strettamente collegato al simbolismo religioso: nel ciclo di affreschi all'interno del santuario di Santa Maria della Colomba, la veste della Vergine è di colore rosso, simbolo dell’umanità e verginità, mentre il drappeggio soprastante è celeste o blu, colore che allude alla divinità e alla sponsalità. Stesse caratteristiche sono presenti, altresi, nel tradizionale abito che è stato preso in esame: una veste rossa con una seconda gonna più piccola di colore blu. In verità non si può parlare strettamente di un abito standard utilizzato per svariati secoli ma bensì di un prodotto finale con vari rimaneggiamenti e aggiunte nel corso del tempo. L’abito folcloristico è molto distante dal modo di vestire delle donne di fine Ottocento; esso è arricchito da orpelli e colori che non richiamano la tradizionale vestitura ma bensì presentano, forse, in modo un po’ goffo, un abito con peculiarità teatrali e ‘’da scena’’.

Altra testimonianza che può aiutarci a capire come vestivano le donne nel Settecento e nell'Ottocento è l’arte: il ciclo di affreschi del santuario della Colomba di Anselmo Palmieri del 1713 presenta all'interno  alcuni episodi biblici dove alcuni personaggi sono abbigliati secondo la moda del tempo. 

Particolare: Nascita di Maria Santissima, affresco di Anselmo Palmieri, 1713. Santuario della Colomba


Particolare: Presentazione di Maria al tempio, affresco di Anselmo Palmieri, 1713. Santuario della Colomba

Anche in Santa Maria Maggiore, nella tela collocata nell'abside dove è riprodotta la ‘’Visitazione’’, Maria sfoggia un ricco abito color ocra con risvolti decorati sulla maniche e una pettinatura a ‘’toupet’’, tipica del XVIII secolo; il cugino Zaccaria, invece, presenta un abito ancora più elaborato: un largo mantello di color verde acido copre la parte superiore dell’abito mentre con un gesto di saluto accoglie l’ospite mostrando l’elegante berretto frigio. L’accurata ricercatezza dell’abito sta nell'ampio colletto di color bianco che va ad appoggiarsi sugli omeri, dal color porpora del farsetto e delle brache e dagli eleganti stivali in pelle. L’autore dell’opera, il pittore Nicola Peccheneda, con molta probabilità, si sarà ispirato a qualche illustre personaggio che presentava simili vesti intorno al 1751, anno di realizzazione dell’opera.

Visitazione, tela di Nicola Peccheneda, 1751. Chiesa di S. Maria Maggiore

Un’altra opera che presenta simili caratteristiche alle precedenti è una tela nella chiesa di San Nicola del 1645 di autore ignoto. Ebbene, il santo vescovo di Mira è raffigurato in abiti pontificali mostrando alla sua destra un fanciullo, il coppiere Basilio (o Adeodato nella trascrizione latina) che fece ritorno a casa, grazie all'intervento del santo,  dopo essere stato rapito dai pirati saraceni.  Il coppiere in atto di ringraziamento verso il santo è abbigliato secondo i costumi della prima metà del XVII secolo; è agghindato con una giubba o farsetto, appuntito sul davanti, arricchito da trine e merletti, sovrapponendosi su calzoni (o culottes alla francese) voluminosi, fissati al ginocchio da nastrini o bottoni che reggono delle calze bianche. Sulle spalle un corto mantello, sorretto dagli sbuffi posti sul farsetto e scarpe con fibbie in argento. 

Particolare: San Nicola, di ignoto autore, 1645, Chiesa di San Nicola



Bibliografia:

L. Giustiniani, Dizionario ragionato del regno di Napoli, 1797-1805, vol.10
S. Macchiaroli, Diano e l'omonima sua valle, Napoli, ed. Rondinella 1868.
R. Sarti, Vita di casa. Abitare, mangiare, vestirenell'Europa moderna. Ed. Laterza, 2003
Archivio privato della famiglia De Marco. (Carteggio)






  

domenica 16 dicembre 2012


Il terremoto del 1857 e la sua ricostruzione nelle cronache d’archivio

Nella notte del sedici dicembre di questo anno milleottocentocinquantasette alle ore cinque, fu scossa la terra da forte tremuoto sussultorio, che per poi alle ore cinque ed un quarto fu seguito da altra fortissima scossa ondulatoria sussultoria e vorticosa di durata circa trenta secondi, il quale veniva avvertito in più parti dell’intera Europa, e fu di disastro però in molti paesi della provincia Basilisca, ed in cinque comuni di questa del Principato Citeriore, cioè Polla di primo ordine pel crollo delle case e deperimento di circa 900 vittime; di secondo ordine Atena per le vittime in numero di cinquantasei, delle quali sedici filiani qui appresso notate sotto l’istessa data…’’. Con queste parole, cariche di dolore e sconcerto, apre la cronaca di quel tragico evento don Antonio Murano, parroco di San Michele arcangelo e redattore di una delle due cronache del tempo. A disturbare la quiete ’di questo paese all’animo in qualche tranquillità, osservando la stagione amata di una perfetta calma’’ come scriverà più tardi invece, anche l’arciprete di Santa Maria, don Stanislao Curto, fu una fortissima scossa ondulatoria, sussultoria e vorticosa che imprigionò, uccidendo tra le mura domestiche, famiglie intere e deturpando gran parte del patrimonio architettonico ed edilizio. Nonostante gli altri due eventi sismici  - ma non di questa portata catastrofica – del febbraio del 1826 (dove rimasero diroccate due o tre case e il campanile di San Michele arcangelo nella sua sommità) e nel novembre 1836, nessuno serbava memoria di una così grande sciagura ‘’quindi in quella nottata fatale la terra si vide sempre intraballo per le continuate scosse fino al numero di 34 circa; sicchè sembrava vedere l’ultimo eccidio dell’universal giudizio. Immezzo all’ultimo terrore vedeansi uscire dai rottami gli uomi come i spettri dei Romani, tutti in mali arnesi, e chi del tutto ignudi uscire per le strade ingombrati a macerie insormontabili coi pargoletti addosso, e colle spose a canto fra il pianto, gli urli, e lo schiamazzo di una voce tremante gridar pietà…’’. L’ultimo evento sismico di tale intensità che portò ‘’guasti sì enormi di più migliaia di ducati’’ fu quello del 1561, trascritto nel protocollo del notaio atinate Donato Sambuco.
I pensieri, le speranze e le gioie di quel tragico inverno del 1857 erano proiettate verso il fervore natalizio. Nonostante la povertà dilagante e l’emigrazione verso le terre Americhe, (come un tempo si diceva) vivere il Natale intorno al focolare domestico e godere di quei pochi benefici che la terra rendeva attraverso un frutto o un dolce preparato alla meno peggio in casa, erano le uniche opportunità che le genti di quel tempo potevano permettersi. Privata di ciò, fu la famiglia di Maria Gaimari che vivendo con i suoi tre figli, Francesca, Vincenzo e Ciro in una delle case che facevano da contorno al medievale castello, trovarono la morte in quella fatidica notte quando un incendio divampò all’interno della loro abitazione, causato proprio da quel focolare, simbolo apportatore di gioie. Naturalmente la cristiana religione albergava nel cuore dei molti ‘e quasi tutti venivano a folla in Chiesa per la Novena del Santo Natale… facendosi di buon mattino, quando alla ora cinque ed un quarto di notte del 16 dicembre detto mese ad anno 1857, primo giorno del surriferito Novenario di Gesù Bambino, la mano dell’Onnipotente Iddio a chiamar il genere umano a miglior sentiero scosse i cardini di questo globo terraqueo…’’, annota ancora il curato Curto. Il terremoto devastò una vasta area della Basilicata e una parte della Campania: sede dell’epicentro fu Montemurro, dove il centro abitato fu completamente raso al suolo. Accanto a questo, subirono la stessa sorte Tito, Viggiano, Marsico Nuovo, Grumento (allora Saponara) e la vicina Polla: intere aree urbane devastate con una percentuale di case abitabili pari allo zero. Questa grave sciagura si inserì in un contesto generale non privo di difficoltà: il regno borbonico si avviava in una lenta e progressiva decadenza politica ed economica e i pochi aiuti messi a disposizione non agevolavano a migliorare la situazione resa ancora più difficoltosa nelle aree più impervie e difficili da raggiungere. La collocazione geografica del Vallo di Diano, però, e più in specifico di Atena permise al governo borbonico di inviare aiuti con maggiore rapidità: ’… quantunque la pietà dell’attuale religioso Sovrano Ferdinando Secondo ne avesse stampate le orme ad una misericordiosa sovvenzione per vestiture e denaro, ma che volete?. Se l’esterminio fu grande ed esteso, per cui emulavano largizioni per anche i particolari di tutto questo Regno, e puranche gli esteri, da quel colletta si sono sopperite a tante altre spese erogate per l’oggetto’’. Se per il Vallo di Diano gli aiuti furono quasi immediati, non fu così per la ricostruzione. Si affacciava sulla scena politica la nuova monarchia che aveva unito sotto un unico nome l’intera penisola: I Savoia.
Incuranti della ricostruzione, i nuovi regnanti optarono per una politica di conservazione dell’unità nazionale, mirando all’ultimo tassello di un grande puzzle: Roma. Anche papa Pio IX, in una lettera inviata ai vescovi del regno di Napoli il 20 gennaio del 1858, in risposta alle drammatiche notizie sul terremoto, sottolineava che tali flagelli erano causati dalle colpe degli uomini e da un clero corrotto. Nonostante i pochi aiuti a disposizione ‘’una solerzia filantropica si scorgeva nella notte del 16 dicembre di questi superstiti cittadini in accorrere alla liberazione di tanti altri intombati sotto le macerie, di che riusciva felice alla loro carità trarli fuori dal pericolo della morte imminente, tranne quei pochi che colpiti all’improvviso nella prima e seconda scossa da non respirar più l’aura vitale, e pure furono scavati estinti freddi cadaveri, tanto bastò ad appagare l’operante lor zelo. Questo non si arrestava miga al far del giorno, di modo che tutte le 56 vittime furono inumate in sacro recinto, fra lo spazio di sei giorni, e lo sarebbe stato forse prima, se l’ammucchiamento di taluni punti non fosse stato della gran calca, come lo era, talchè i cadaveri eransi sprofondati ne più cupi bassi degli edifici, che al sol farne la ricerca non si risparmiava né al coraggio, né alla forza, e copiosi sudori si versavano a conseguir l’impresa umanitaria’’. I sopravvissuti trovarono asilo e riparo in ampie aree inurbane tra cui davanti al palazzo del principe (l’attuale piazza Vittorio Emanuele, ancora priva delle molte abitazioni che la caratterizzano), alla Braida, a Porta d’Aquila, a Porta Piccola ed infine sull’altura opposta all’abitato: il santuario della Colomba, preservato dalla minaccia sismica e restato indenne. Il giorno dopo, e cioè il 17 dicembre, si effettuò una processione penitenziale ‘’con l’incantevole simulacro della Santissima Vergine della Colomba, nostra Padrona, ed appo lei gli ecclesiastici, i nobili, ed i plebei si facevano a gara offrirle de donativi in oro, argento, ed altri oggetti…’’; in mezzo a tanta disperazione la religione era il maggior conforto dei cristiani e ‘’ammezzo alla desolazione, e tra lo sconforto di un giusto cielo irato trionfava la fiducia ai santi protettori, ed Atena si rivolgeva colla maggior fiducia alla Diva della Colomba, che il pio simulacro intatto, il suo tempio preservato testimoniava che lei difendeva; lei proteggeva questa patria, lei incoraggiava nel trambusto, di nove ore continue di tremuoto interi allato, quegli afflitti di non disperare della sua incessante assistenza…’’.



 Atena stava vivendo un fervore edilizio, testimoniato dalle molteplici costruzioni ed edifici ante terremoto del 1857. Le date di edificazione o ristrutturazione incise nelle chiavi di volta delle antiche abitazioni affermano questo ampliamento urbano che si era protratto verso est e in particolar modo verso l’area del borgo, dove numerose abitazioni a partire dal principio del XIX secolo si erano installate in questa parte di paese. A confermare tale benessere edilizio è il restauro che si stava effettuando alla chiesa di San Michele arcangelo durante il terremoto ma la situazione del fabbricato chiesastico dopo la violenta scossa  peggiorò: ‘’tra le quali rovine si calcola il campanile della Parrocchia di S. Angelo, il coro, la sagrestia, due navi delle aliminori, Nome di Dio e Crocifisso, ed altare maggiore di pietra smantellato, che poi fu portato in San Nicola per ivi funzionarvi’’.
Non mancavano, inoltre, tra le più svariate credenze popolari, presagi che avevano annunciato tale catastrofe: ‘’il flagello fu preceduto da una lunga siccità della terra, ed essiccamento di pozzi e fontane, e congelate nelle notti antecedenti da circa due mesi, con serenità di atmosfera, ventilazioni continuate, presenza di borea.’’ Ma al di là delle credenze e del rapporto uomo-natura, un dettagliato contributo scientifico fu dato da Robert Mallet, ingegnere irlandese che compì nell’area colpita una vera e propria spedizione, accompagnato dal fotografo francese Bernoud.
La spedizione giunse ad Atena e a riceverla fu don Vincenzo Giachetti che dopo il terremoto era stato eletto deputato sottointendente e ritenuto dal Mallet, uomo intelligente. L’abitato aveva subito danni gravissimi, come riporta nel suo diario di viaggio il Mallet, e le strade in particolare quelle sui lati nord e sud, erano piene delle macerie dei palazzi crollati, fino a 3-4 metri dal livello stradale. Non tutti gli edifici però subirono la medesima sorte e un esempio di eccellenza fu il campanile squadrato di Santa Maria, intatto e senza neppure una crepa, costruito con materiale solido e di buona qualità.


Altri edifici che avevano saldamente resistito all’urto sismico furono delle abitazioni ritenute dal Mallet ‘’case estive’’ e posizionate alle scaffae, forse in zona Schifa, in prossimità del castello e dietro la chiesa di San Michele in direzione est.
Gran parte della cinta muraria medievale era ancora in piedi e in un punto e precisamente sotto la chiesa madre era crollata una torre dell’antico circuito difensivo che lasciò scoperta la superficie facendo intravedere cumuli di ossa umane. Molto probabilmente la torre, avendo perso la sua originaria funzione, fu adibita a ossario della vicina chiesa di Santa Maria in quanto molte delle ossa presentavano ancora dei legamenti.  Molte delle abitazioni crollate erano costruite con tecniche primitive e materiali assai poveri e l’articolato centro urbano di Atena, con case una addossata all’altra, si trasformò in una vera e propria trappola mortale.
I dati registrati al termine dell’evento sismico riportarono 9.732 morti per la provincia di Potenza e 1.207 per quella di Salerno: complessivamente vi furono 10.939 morti, una cifra molto alta di perdite umane, creando un impressionante calo demografico accompagnato dal già presente problema delle emigrazioni. Nei distretti di Sala, Potenza e Melfi vennero erogati contributi soddisfacenti, assegnando ad ogni famiglia 10 moggi di terreno (circa tre ettari e mezzo), una abitazione, e un salario giornaliero dovuto per l’obbligo di partecipare ai lavori di bonifica che si stavano intraprendendo nella valle. Una stima dei danni che il terremotò causò non venne mai eseguita a causa della grossa vastità dell’evento sismico e i pochi mezzi a disposizione. Una speranza sembrò riaccendere gli animi dei superstiti con un’inaspettata apparizione al termine del sisma: una strana luce nel cielo, simile ad una cometa lucida e bella, apparve, perdurando per circa un mese. Gli atinati, infine, ‘’debbono sempre, ed in ogni tempo lasciare in retaggio alle posteriori generazioni, l’aver una fede viva alla divozione di tanta Signora, [per La Vergine della Colomba] giammai lasciarne quel sacro culto, che noi abbiamo professato e confirmato con giurato voto, quasi negli atti di nostra ultima volontà, di guardare a Festa il giorno sedici dicembre di ciascun anno…’’.

Questa ricorrenza sembra caduta nell’oblio e noi generazioni figlie della dimenticanza e del progresso abbiamo trascurato questo giurato voto, dimenticando chi in quella notte, stanco ed assonnato dalle fatiche quotidiane, si trovò già immerso nel sonno della grande eternità…’’.
Che queste poche righe possano essere ad futuram rei memoriam! 

di Paolo Francesco Magnanti
Tutti i diritti sono riservati.


Bibliografia ed Approfondimenti:

G. Ferrari, Viaggio nelle aree del terremoto del 16 dicembre 1857. L'opera di Robert Mallet nel contesto scientifico e ambientale attuale del Vallo di Diano. ed. SGA. 2004

ASSM (Archivio Storico Santa Maria Maggiore) Liber Mortuorum A. D. 1857; sempre nello stesso Libro dei morti della chiesa di S. Angelo (sez. San Michele arcangelo)

P. F. Magnanti, San Biagio Patrono di Atena Lucana da 150 anni, Cronache d'Archivio - Terremoto del 1857, Anno 2007.

Il terremoto del 16 dicembre del 1857, Studio S.G.A. per il Centro Documentazione Multimediale, Servizio Sismico Nazionale. 

  

giovedì 6 dicembre 2012


        Vicende terrene di un uomo di Chiesa
-         Il caso del canonico Spagna di Atena -

Nato dalla nobile famiglia Spagna e terzo di undici figli, Michele Giuseppe Antonio nacque ad Atena Lucana nel 1774 da don Arcangelo e donna Prisca Barrile. Avviato alla formazione teologica e umanistica anche con l’aiuto di suo fratello, il sacerdote don Nicola, fu ordinato sacerdote nel 1798. La famiglia Spagna, di non chiare origini, compare ad Atena al termine del XVII secolo ed era dedita al commercio e agli affari. La vicinanza agli ambienti borbonici e la fedeltà alla causa realista fecero di questa famiglia una delle più ragguardevoli e importanti della cittadina. Il canonico Spagna era un fedele suddito della corona borbonica e aveva una fitta corrispondenza con il cardinale Fabrizio Ruffo, dei duchi di Bagnara e Baranello, al fine di rimettere sul trono di Napoli Ferdinando IV. Il cardinale Ruffo in testa ad un esercito di 25.000 uomini una volta impadronitosi di Crotone risalì la penisola attraverso la Basilicata, poi in Puglia e attraversò il Vallo di Diano dove, secondo un racconto, il canonico Spagna acclamò l’arrivo dell’esercito della Santa Fede.

 (Particolare dello Stemma della famiglia Spagna)

Con l’arrivo delle truppe napoleoniche nel 1806, don Michele Spagna fuggì dal palazzo vescovile di Sala – dove era stato segregato e protetto dal tribunale ecclesiastico per un reato commesso nel 1804 – rifugiandosi nel palazzo di famiglia ad Atena. Il ritorno dei Borboni contribuì a rafforzare la già potente famiglia Spagna con la concessione dell’arma araldica e la donazione di feudi e terreni. 
(Portale del palazzo Spagna)

Don Michele Spagna venne insignito del titolo di canonico e cavaliere dell’ordine costantiniano con la concessione di particolari insegne quali il rocchetto, la mozzetta, la cappa magna, l’anello e la croce pettorale. L’opulenza è manifesta nella realizzazione della sua nobiliare dimora, ostentata dal portale neoclassico datato 1807, con elementi tardo barocchi e reminiscenze manieriste. Alla base della paraste che sorreggono una trabeazione, ornata di metope e triglifi, si legge un’iscrizione: DE SPAGNA HOS LAPIDES MICHAEL CONSTRUXIT ET AEDES A. D. 1807. FRANCISCUS PITETTI DE PADULA F. (fecit). Sul lato sinistro del palazzo, invece, un semplice portale con iscrizione indica che un tempo vi era un sacello per le private orazioni del canonico e dei suoi famigli. 

(Particolare del portale)

Nel 1816 un certo Michele Manzolillo presenta una denuncia al procuratore generale di Salerno per concubinaggio, infanticidio, protezione a sicari prezzolati e ricettazione, ‘’L’infante morto fu da lui in una notte portato nel cimitero dietro la Chiesa Madre’’, si legge nella denuncia; ed ancora: ‘’ comprava vaccini a prezzo vilissimo e li rivendeva a prezzo di mercato’’. Con la morte del Manzolillo, la denuncia, inspiegabilmente fu insabbiata nonostante fosse firmata da molti testimoni.
Ma nell’estate del 1837 ad Atena succedevano dei fatti molto strani. Il colera si era già diffuso e aveva mietuto numerose vittime, provocando disagi e preoccupazione all’interno delle varie comunità del Principato Citeriore. Accanto all’assillante preoccupazione per le numerose  sepolture da effettuare, fecero comparsa le prime voci di veneficio che causarono torbidi disordini sociali. Il vice sindaco di Atena, un tal Pandolfo, succeduto al primo eletto Cimino deceduto di colera, indirizzò una lettera al sottointendente di Sala: una missiva dai toni preoccupanti, denunciando il canonico Spagna, reo di aver diffuso voci di avvelenamento arrecando paura e sconforto tra la popolazione. Nella lettera si legge, inoltre, che il canonico Spagna pubblicò ‘’sopra dell’altare al popolo congregato in chiesa, che fossero stati tutti cauti nell’andare a prendere l’acqua della fontana, chè si passava pericolo di morire avvelenati…’’.  E aggiunge il sindaco nella missiva: ‘’Ieri l’altro essendo lo stesso [il canonico] andato camminando, portò un cocuzzello spaccato, che disse averlo trovato avvelenato, in mezzo ad una gran folla di gente, ed indi se lo portò in casa sua.’’
Tra il popolo ignorante e credulone era semplice propinare false credenze: il canonico Spagna era intenzionato a diffondere una paura che stava esasperando già la moltitudine, per la perdita dei propri cari e gestire affari lucrosi intorno al ‘’commercio’’ delle sepolture. Il diffondere di voci sediziose portò ad una vera e propria caccia all’untore di manzoniana memoria e la paura crebbe non tanto per il diffondersi del morbo cholera ma per l’avvelenamento dei beni di prima necessità quali l’acqua presente nei pozzi e canali di irrigazione e gli ortaggi. Era stato proprio re Ferdinando II, in un editto del 6 Agosto del 1837, a ordinare ‘’che fossero vietate vociferazioni che si sparga veleno al fine di turbare l’interna sicurezza dello Stato’’.
Nonostante l’editto di Saint Cloud, emanato da Napoleone e promulgato al Regno d’Italia il 5 settembre 1806, che vietava l’inumazione e le sepoltura all’interno dei centri urbani e promuoveva la costruzione di cimiteri al di fuori del perimetro urbano, Atena, in quel periodo, ancora non era dotata di un’area per le sepolture extraurbane e la consuetudine di seppellire i morti all’interno delle chiese era ancora radicata durante quell’agitata estate del 1837.
Il Liber Mortuorum del 1837, il registro con l’elenco dei decessi durante il morbo colerico, ci fornisce un’indicazione preziosa: il luogo di sepoltura di coloro che erano deceduti a causa dell’epidemia. Tal luogo era denominato ‘’Agro Sancto alli Arnici’’, prossimo alla cappella di Sant’Antonio, contrada extraurbana e luogo ideale per seppellire i defunti.
Non tutti però erano concordi nel rispettare la legge di sanità pubblica e fu reso necessario un controllo autonomo da parte della popolazione in quanto circa trecento persone, armate di mazze e di scuri, assediarono la chiesa madre per impedire che vi si tumulassero cadaveri colerosi ‘’eccellenti’’. Il 20 agosto, inoltre, avvenne un atto sacrilego e cioè l’apertura di una bara durante un corteo funebre. Gli imputati di tale gesto furono i fratelli Pietro e Giuseppe Antonio Di Marsico, Luigi Puppolo, Celestino Pessolano e Pietro Varuzza, quest’ultimo esecutore materiale dell’atto. Il farmacista Domenico Curzio dichiarò apertamente che furono sepolti diversi cadaveri colerosi nella chiesa madre e che tale operazione si praticava furtivamente ‘’in tempo di notte’’, tanto che ‘’il puzzore che tramandava nella chiesa era tale, che la gente non vi accedeva’’. Non tutti i congiunti dei defunti erano propensi a far seppellire le salme dentro fosse comuni e coloro che potevano permetterselo, e soprattutto la classe nobiliare, ricorrevano al canonico Spagna e dietro cospicuo pagamento potevano permettersi l’inumazione in una delle numerose tombe a terragna presenti nella chiesa madre. Anche la stessa famiglia Spagna era proprietaria di una tomba di famiglia dove molti esponenti della stessa, tra cui una donna Isabella Spagna, sorella del canonico e moglie di d.Giuseppe Cimino, vennero ivi sepolti. La vicenda si chiuse con l’arresto del sacrestano (colpevole di aver effettuato le inumazioni notturne) e il canonico Spagna venne sollevato dall’incarico di curato della chiesa Madre. Il canonico don Michele Spagna morì nel 1839 e fu sepolto nel camposanto in contrada Arnici. Solenni funerali furono celebrati, come si legge nella particella del registro dei morti, con la partecipazione del clero e dei monaci ‘’della terra de la Polla’’ che accompagnarono il feretro processionalmente in ‘’pompa magna’’. Ma un mistero avvolge la morte di quest’uomo: il luogo della sua sepoltura. Il registro dei decessi riporta come luogo di riposo eterno per il canonico il camposanto presso la cappella di Sant’Antonio agli Arnici. Dalle perlustrazioni da me effettuate nessuna lapide con epitaffio e nessun sepolcro risulta esistere all’interno ed esterno della cappella. Viene da chiedersi se effettivamente il canonico sia stato sepolto in questo luogo…
E’ mai possibile che nessuno abbia eretto un monumento o lapide dedicatoria al sacerdote Spagna? Eppure il suo rango di canonico, con una cospicua rendita mensile, poteva permettersi un ben modesto sepolcro funebre. Nemmeno il clero e il benestante fratello don Mattia Spagna hanno pronunciato un epitaffio? Oppure c’è stata un vera e propria damnatio memoriae?
Credo, invece, che la salma del canonico in tempi meno turbolenti sia stato riportata nel sepolcro di famiglia nella chiesa di Santa Maria Maggiore dove tuttora riposa in attesa della beata resurrezione.

di Paolo Francesco Magnanti
@ Tutti i diritti sono riservati

(Tomba a terragna della famiglia Spagna, Chiesa di S. Maria Maggiore, Atena Lucana)

Bibliografia e fonti:

Paolo Abbate, Il colera del 1836 - 1837 a Napoli, nel Cilento e nel Vallo di Diano. ed. Palladio, 1998.
ASSM, (Archivio Storico di Santa Maria Maggiore di  Atena Lucana),  Registro dei morti del 1837.