domenica 16 dicembre 2012


Il terremoto del 1857 e la sua ricostruzione nelle cronache d’archivio

Nella notte del sedici dicembre di questo anno milleottocentocinquantasette alle ore cinque, fu scossa la terra da forte tremuoto sussultorio, che per poi alle ore cinque ed un quarto fu seguito da altra fortissima scossa ondulatoria sussultoria e vorticosa di durata circa trenta secondi, il quale veniva avvertito in più parti dell’intera Europa, e fu di disastro però in molti paesi della provincia Basilisca, ed in cinque comuni di questa del Principato Citeriore, cioè Polla di primo ordine pel crollo delle case e deperimento di circa 900 vittime; di secondo ordine Atena per le vittime in numero di cinquantasei, delle quali sedici filiani qui appresso notate sotto l’istessa data…’’. Con queste parole, cariche di dolore e sconcerto, apre la cronaca di quel tragico evento don Antonio Murano, parroco di San Michele arcangelo e redattore di una delle due cronache del tempo. A disturbare la quiete ’di questo paese all’animo in qualche tranquillità, osservando la stagione amata di una perfetta calma’’ come scriverà più tardi invece, anche l’arciprete di Santa Maria, don Stanislao Curto, fu una fortissima scossa ondulatoria, sussultoria e vorticosa che imprigionò, uccidendo tra le mura domestiche, famiglie intere e deturpando gran parte del patrimonio architettonico ed edilizio. Nonostante gli altri due eventi sismici  - ma non di questa portata catastrofica – del febbraio del 1826 (dove rimasero diroccate due o tre case e il campanile di San Michele arcangelo nella sua sommità) e nel novembre 1836, nessuno serbava memoria di una così grande sciagura ‘’quindi in quella nottata fatale la terra si vide sempre intraballo per le continuate scosse fino al numero di 34 circa; sicchè sembrava vedere l’ultimo eccidio dell’universal giudizio. Immezzo all’ultimo terrore vedeansi uscire dai rottami gli uomi come i spettri dei Romani, tutti in mali arnesi, e chi del tutto ignudi uscire per le strade ingombrati a macerie insormontabili coi pargoletti addosso, e colle spose a canto fra il pianto, gli urli, e lo schiamazzo di una voce tremante gridar pietà…’’. L’ultimo evento sismico di tale intensità che portò ‘’guasti sì enormi di più migliaia di ducati’’ fu quello del 1561, trascritto nel protocollo del notaio atinate Donato Sambuco.
I pensieri, le speranze e le gioie di quel tragico inverno del 1857 erano proiettate verso il fervore natalizio. Nonostante la povertà dilagante e l’emigrazione verso le terre Americhe, (come un tempo si diceva) vivere il Natale intorno al focolare domestico e godere di quei pochi benefici che la terra rendeva attraverso un frutto o un dolce preparato alla meno peggio in casa, erano le uniche opportunità che le genti di quel tempo potevano permettersi. Privata di ciò, fu la famiglia di Maria Gaimari che vivendo con i suoi tre figli, Francesca, Vincenzo e Ciro in una delle case che facevano da contorno al medievale castello, trovarono la morte in quella fatidica notte quando un incendio divampò all’interno della loro abitazione, causato proprio da quel focolare, simbolo apportatore di gioie. Naturalmente la cristiana religione albergava nel cuore dei molti ‘e quasi tutti venivano a folla in Chiesa per la Novena del Santo Natale… facendosi di buon mattino, quando alla ora cinque ed un quarto di notte del 16 dicembre detto mese ad anno 1857, primo giorno del surriferito Novenario di Gesù Bambino, la mano dell’Onnipotente Iddio a chiamar il genere umano a miglior sentiero scosse i cardini di questo globo terraqueo…’’, annota ancora il curato Curto. Il terremoto devastò una vasta area della Basilicata e una parte della Campania: sede dell’epicentro fu Montemurro, dove il centro abitato fu completamente raso al suolo. Accanto a questo, subirono la stessa sorte Tito, Viggiano, Marsico Nuovo, Grumento (allora Saponara) e la vicina Polla: intere aree urbane devastate con una percentuale di case abitabili pari allo zero. Questa grave sciagura si inserì in un contesto generale non privo di difficoltà: il regno borbonico si avviava in una lenta e progressiva decadenza politica ed economica e i pochi aiuti messi a disposizione non agevolavano a migliorare la situazione resa ancora più difficoltosa nelle aree più impervie e difficili da raggiungere. La collocazione geografica del Vallo di Diano, però, e più in specifico di Atena permise al governo borbonico di inviare aiuti con maggiore rapidità: ’… quantunque la pietà dell’attuale religioso Sovrano Ferdinando Secondo ne avesse stampate le orme ad una misericordiosa sovvenzione per vestiture e denaro, ma che volete?. Se l’esterminio fu grande ed esteso, per cui emulavano largizioni per anche i particolari di tutto questo Regno, e puranche gli esteri, da quel colletta si sono sopperite a tante altre spese erogate per l’oggetto’’. Se per il Vallo di Diano gli aiuti furono quasi immediati, non fu così per la ricostruzione. Si affacciava sulla scena politica la nuova monarchia che aveva unito sotto un unico nome l’intera penisola: I Savoia.
Incuranti della ricostruzione, i nuovi regnanti optarono per una politica di conservazione dell’unità nazionale, mirando all’ultimo tassello di un grande puzzle: Roma. Anche papa Pio IX, in una lettera inviata ai vescovi del regno di Napoli il 20 gennaio del 1858, in risposta alle drammatiche notizie sul terremoto, sottolineava che tali flagelli erano causati dalle colpe degli uomini e da un clero corrotto. Nonostante i pochi aiuti a disposizione ‘’una solerzia filantropica si scorgeva nella notte del 16 dicembre di questi superstiti cittadini in accorrere alla liberazione di tanti altri intombati sotto le macerie, di che riusciva felice alla loro carità trarli fuori dal pericolo della morte imminente, tranne quei pochi che colpiti all’improvviso nella prima e seconda scossa da non respirar più l’aura vitale, e pure furono scavati estinti freddi cadaveri, tanto bastò ad appagare l’operante lor zelo. Questo non si arrestava miga al far del giorno, di modo che tutte le 56 vittime furono inumate in sacro recinto, fra lo spazio di sei giorni, e lo sarebbe stato forse prima, se l’ammucchiamento di taluni punti non fosse stato della gran calca, come lo era, talchè i cadaveri eransi sprofondati ne più cupi bassi degli edifici, che al sol farne la ricerca non si risparmiava né al coraggio, né alla forza, e copiosi sudori si versavano a conseguir l’impresa umanitaria’’. I sopravvissuti trovarono asilo e riparo in ampie aree inurbane tra cui davanti al palazzo del principe (l’attuale piazza Vittorio Emanuele, ancora priva delle molte abitazioni che la caratterizzano), alla Braida, a Porta d’Aquila, a Porta Piccola ed infine sull’altura opposta all’abitato: il santuario della Colomba, preservato dalla minaccia sismica e restato indenne. Il giorno dopo, e cioè il 17 dicembre, si effettuò una processione penitenziale ‘’con l’incantevole simulacro della Santissima Vergine della Colomba, nostra Padrona, ed appo lei gli ecclesiastici, i nobili, ed i plebei si facevano a gara offrirle de donativi in oro, argento, ed altri oggetti…’’; in mezzo a tanta disperazione la religione era il maggior conforto dei cristiani e ‘’ammezzo alla desolazione, e tra lo sconforto di un giusto cielo irato trionfava la fiducia ai santi protettori, ed Atena si rivolgeva colla maggior fiducia alla Diva della Colomba, che il pio simulacro intatto, il suo tempio preservato testimoniava che lei difendeva; lei proteggeva questa patria, lei incoraggiava nel trambusto, di nove ore continue di tremuoto interi allato, quegli afflitti di non disperare della sua incessante assistenza…’’.



 Atena stava vivendo un fervore edilizio, testimoniato dalle molteplici costruzioni ed edifici ante terremoto del 1857. Le date di edificazione o ristrutturazione incise nelle chiavi di volta delle antiche abitazioni affermano questo ampliamento urbano che si era protratto verso est e in particolar modo verso l’area del borgo, dove numerose abitazioni a partire dal principio del XIX secolo si erano installate in questa parte di paese. A confermare tale benessere edilizio è il restauro che si stava effettuando alla chiesa di San Michele arcangelo durante il terremoto ma la situazione del fabbricato chiesastico dopo la violenta scossa  peggiorò: ‘’tra le quali rovine si calcola il campanile della Parrocchia di S. Angelo, il coro, la sagrestia, due navi delle aliminori, Nome di Dio e Crocifisso, ed altare maggiore di pietra smantellato, che poi fu portato in San Nicola per ivi funzionarvi’’.
Non mancavano, inoltre, tra le più svariate credenze popolari, presagi che avevano annunciato tale catastrofe: ‘’il flagello fu preceduto da una lunga siccità della terra, ed essiccamento di pozzi e fontane, e congelate nelle notti antecedenti da circa due mesi, con serenità di atmosfera, ventilazioni continuate, presenza di borea.’’ Ma al di là delle credenze e del rapporto uomo-natura, un dettagliato contributo scientifico fu dato da Robert Mallet, ingegnere irlandese che compì nell’area colpita una vera e propria spedizione, accompagnato dal fotografo francese Bernoud.
La spedizione giunse ad Atena e a riceverla fu don Vincenzo Giachetti che dopo il terremoto era stato eletto deputato sottointendente e ritenuto dal Mallet, uomo intelligente. L’abitato aveva subito danni gravissimi, come riporta nel suo diario di viaggio il Mallet, e le strade in particolare quelle sui lati nord e sud, erano piene delle macerie dei palazzi crollati, fino a 3-4 metri dal livello stradale. Non tutti gli edifici però subirono la medesima sorte e un esempio di eccellenza fu il campanile squadrato di Santa Maria, intatto e senza neppure una crepa, costruito con materiale solido e di buona qualità.


Altri edifici che avevano saldamente resistito all’urto sismico furono delle abitazioni ritenute dal Mallet ‘’case estive’’ e posizionate alle scaffae, forse in zona Schifa, in prossimità del castello e dietro la chiesa di San Michele in direzione est.
Gran parte della cinta muraria medievale era ancora in piedi e in un punto e precisamente sotto la chiesa madre era crollata una torre dell’antico circuito difensivo che lasciò scoperta la superficie facendo intravedere cumuli di ossa umane. Molto probabilmente la torre, avendo perso la sua originaria funzione, fu adibita a ossario della vicina chiesa di Santa Maria in quanto molte delle ossa presentavano ancora dei legamenti.  Molte delle abitazioni crollate erano costruite con tecniche primitive e materiali assai poveri e l’articolato centro urbano di Atena, con case una addossata all’altra, si trasformò in una vera e propria trappola mortale.
I dati registrati al termine dell’evento sismico riportarono 9.732 morti per la provincia di Potenza e 1.207 per quella di Salerno: complessivamente vi furono 10.939 morti, una cifra molto alta di perdite umane, creando un impressionante calo demografico accompagnato dal già presente problema delle emigrazioni. Nei distretti di Sala, Potenza e Melfi vennero erogati contributi soddisfacenti, assegnando ad ogni famiglia 10 moggi di terreno (circa tre ettari e mezzo), una abitazione, e un salario giornaliero dovuto per l’obbligo di partecipare ai lavori di bonifica che si stavano intraprendendo nella valle. Una stima dei danni che il terremotò causò non venne mai eseguita a causa della grossa vastità dell’evento sismico e i pochi mezzi a disposizione. Una speranza sembrò riaccendere gli animi dei superstiti con un’inaspettata apparizione al termine del sisma: una strana luce nel cielo, simile ad una cometa lucida e bella, apparve, perdurando per circa un mese. Gli atinati, infine, ‘’debbono sempre, ed in ogni tempo lasciare in retaggio alle posteriori generazioni, l’aver una fede viva alla divozione di tanta Signora, [per La Vergine della Colomba] giammai lasciarne quel sacro culto, che noi abbiamo professato e confirmato con giurato voto, quasi negli atti di nostra ultima volontà, di guardare a Festa il giorno sedici dicembre di ciascun anno…’’.

Questa ricorrenza sembra caduta nell’oblio e noi generazioni figlie della dimenticanza e del progresso abbiamo trascurato questo giurato voto, dimenticando chi in quella notte, stanco ed assonnato dalle fatiche quotidiane, si trovò già immerso nel sonno della grande eternità…’’.
Che queste poche righe possano essere ad futuram rei memoriam! 

di Paolo Francesco Magnanti
Tutti i diritti sono riservati.


Bibliografia ed Approfondimenti:

G. Ferrari, Viaggio nelle aree del terremoto del 16 dicembre 1857. L'opera di Robert Mallet nel contesto scientifico e ambientale attuale del Vallo di Diano. ed. SGA. 2004

ASSM (Archivio Storico Santa Maria Maggiore) Liber Mortuorum A. D. 1857; sempre nello stesso Libro dei morti della chiesa di S. Angelo (sez. San Michele arcangelo)

P. F. Magnanti, San Biagio Patrono di Atena Lucana da 150 anni, Cronache d'Archivio - Terremoto del 1857, Anno 2007.

Il terremoto del 16 dicembre del 1857, Studio S.G.A. per il Centro Documentazione Multimediale, Servizio Sismico Nazionale. 

  

giovedì 6 dicembre 2012


        Vicende terrene di un uomo di Chiesa
-         Il caso del canonico Spagna di Atena -

Nato dalla nobile famiglia Spagna e terzo di undici figli, Michele Giuseppe Antonio nacque ad Atena Lucana nel 1774 da don Arcangelo e donna Prisca Barrile. Avviato alla formazione teologica e umanistica anche con l’aiuto di suo fratello, il sacerdote don Nicola, fu ordinato sacerdote nel 1798. La famiglia Spagna, di non chiare origini, compare ad Atena al termine del XVII secolo ed era dedita al commercio e agli affari. La vicinanza agli ambienti borbonici e la fedeltà alla causa realista fecero di questa famiglia una delle più ragguardevoli e importanti della cittadina. Il canonico Spagna era un fedele suddito della corona borbonica e aveva una fitta corrispondenza con il cardinale Fabrizio Ruffo, dei duchi di Bagnara e Baranello, al fine di rimettere sul trono di Napoli Ferdinando IV. Il cardinale Ruffo in testa ad un esercito di 25.000 uomini una volta impadronitosi di Crotone risalì la penisola attraverso la Basilicata, poi in Puglia e attraversò il Vallo di Diano dove, secondo un racconto, il canonico Spagna acclamò l’arrivo dell’esercito della Santa Fede.

 (Particolare dello Stemma della famiglia Spagna)

Con l’arrivo delle truppe napoleoniche nel 1806, don Michele Spagna fuggì dal palazzo vescovile di Sala – dove era stato segregato e protetto dal tribunale ecclesiastico per un reato commesso nel 1804 – rifugiandosi nel palazzo di famiglia ad Atena. Il ritorno dei Borboni contribuì a rafforzare la già potente famiglia Spagna con la concessione dell’arma araldica e la donazione di feudi e terreni. 
(Portale del palazzo Spagna)

Don Michele Spagna venne insignito del titolo di canonico e cavaliere dell’ordine costantiniano con la concessione di particolari insegne quali il rocchetto, la mozzetta, la cappa magna, l’anello e la croce pettorale. L’opulenza è manifesta nella realizzazione della sua nobiliare dimora, ostentata dal portale neoclassico datato 1807, con elementi tardo barocchi e reminiscenze manieriste. Alla base della paraste che sorreggono una trabeazione, ornata di metope e triglifi, si legge un’iscrizione: DE SPAGNA HOS LAPIDES MICHAEL CONSTRUXIT ET AEDES A. D. 1807. FRANCISCUS PITETTI DE PADULA F. (fecit). Sul lato sinistro del palazzo, invece, un semplice portale con iscrizione indica che un tempo vi era un sacello per le private orazioni del canonico e dei suoi famigli. 

(Particolare del portale)

Nel 1816 un certo Michele Manzolillo presenta una denuncia al procuratore generale di Salerno per concubinaggio, infanticidio, protezione a sicari prezzolati e ricettazione, ‘’L’infante morto fu da lui in una notte portato nel cimitero dietro la Chiesa Madre’’, si legge nella denuncia; ed ancora: ‘’ comprava vaccini a prezzo vilissimo e li rivendeva a prezzo di mercato’’. Con la morte del Manzolillo, la denuncia, inspiegabilmente fu insabbiata nonostante fosse firmata da molti testimoni.
Ma nell’estate del 1837 ad Atena succedevano dei fatti molto strani. Il colera si era già diffuso e aveva mietuto numerose vittime, provocando disagi e preoccupazione all’interno delle varie comunità del Principato Citeriore. Accanto all’assillante preoccupazione per le numerose  sepolture da effettuare, fecero comparsa le prime voci di veneficio che causarono torbidi disordini sociali. Il vice sindaco di Atena, un tal Pandolfo, succeduto al primo eletto Cimino deceduto di colera, indirizzò una lettera al sottointendente di Sala: una missiva dai toni preoccupanti, denunciando il canonico Spagna, reo di aver diffuso voci di avvelenamento arrecando paura e sconforto tra la popolazione. Nella lettera si legge, inoltre, che il canonico Spagna pubblicò ‘’sopra dell’altare al popolo congregato in chiesa, che fossero stati tutti cauti nell’andare a prendere l’acqua della fontana, chè si passava pericolo di morire avvelenati…’’.  E aggiunge il sindaco nella missiva: ‘’Ieri l’altro essendo lo stesso [il canonico] andato camminando, portò un cocuzzello spaccato, che disse averlo trovato avvelenato, in mezzo ad una gran folla di gente, ed indi se lo portò in casa sua.’’
Tra il popolo ignorante e credulone era semplice propinare false credenze: il canonico Spagna era intenzionato a diffondere una paura che stava esasperando già la moltitudine, per la perdita dei propri cari e gestire affari lucrosi intorno al ‘’commercio’’ delle sepolture. Il diffondere di voci sediziose portò ad una vera e propria caccia all’untore di manzoniana memoria e la paura crebbe non tanto per il diffondersi del morbo cholera ma per l’avvelenamento dei beni di prima necessità quali l’acqua presente nei pozzi e canali di irrigazione e gli ortaggi. Era stato proprio re Ferdinando II, in un editto del 6 Agosto del 1837, a ordinare ‘’che fossero vietate vociferazioni che si sparga veleno al fine di turbare l’interna sicurezza dello Stato’’.
Nonostante l’editto di Saint Cloud, emanato da Napoleone e promulgato al Regno d’Italia il 5 settembre 1806, che vietava l’inumazione e le sepoltura all’interno dei centri urbani e promuoveva la costruzione di cimiteri al di fuori del perimetro urbano, Atena, in quel periodo, ancora non era dotata di un’area per le sepolture extraurbane e la consuetudine di seppellire i morti all’interno delle chiese era ancora radicata durante quell’agitata estate del 1837.
Il Liber Mortuorum del 1837, il registro con l’elenco dei decessi durante il morbo colerico, ci fornisce un’indicazione preziosa: il luogo di sepoltura di coloro che erano deceduti a causa dell’epidemia. Tal luogo era denominato ‘’Agro Sancto alli Arnici’’, prossimo alla cappella di Sant’Antonio, contrada extraurbana e luogo ideale per seppellire i defunti.
Non tutti però erano concordi nel rispettare la legge di sanità pubblica e fu reso necessario un controllo autonomo da parte della popolazione in quanto circa trecento persone, armate di mazze e di scuri, assediarono la chiesa madre per impedire che vi si tumulassero cadaveri colerosi ‘’eccellenti’’. Il 20 agosto, inoltre, avvenne un atto sacrilego e cioè l’apertura di una bara durante un corteo funebre. Gli imputati di tale gesto furono i fratelli Pietro e Giuseppe Antonio Di Marsico, Luigi Puppolo, Celestino Pessolano e Pietro Varuzza, quest’ultimo esecutore materiale dell’atto. Il farmacista Domenico Curzio dichiarò apertamente che furono sepolti diversi cadaveri colerosi nella chiesa madre e che tale operazione si praticava furtivamente ‘’in tempo di notte’’, tanto che ‘’il puzzore che tramandava nella chiesa era tale, che la gente non vi accedeva’’. Non tutti i congiunti dei defunti erano propensi a far seppellire le salme dentro fosse comuni e coloro che potevano permetterselo, e soprattutto la classe nobiliare, ricorrevano al canonico Spagna e dietro cospicuo pagamento potevano permettersi l’inumazione in una delle numerose tombe a terragna presenti nella chiesa madre. Anche la stessa famiglia Spagna era proprietaria di una tomba di famiglia dove molti esponenti della stessa, tra cui una donna Isabella Spagna, sorella del canonico e moglie di d.Giuseppe Cimino, vennero ivi sepolti. La vicenda si chiuse con l’arresto del sacrestano (colpevole di aver effettuato le inumazioni notturne) e il canonico Spagna venne sollevato dall’incarico di curato della chiesa Madre. Il canonico don Michele Spagna morì nel 1839 e fu sepolto nel camposanto in contrada Arnici. Solenni funerali furono celebrati, come si legge nella particella del registro dei morti, con la partecipazione del clero e dei monaci ‘’della terra de la Polla’’ che accompagnarono il feretro processionalmente in ‘’pompa magna’’. Ma un mistero avvolge la morte di quest’uomo: il luogo della sua sepoltura. Il registro dei decessi riporta come luogo di riposo eterno per il canonico il camposanto presso la cappella di Sant’Antonio agli Arnici. Dalle perlustrazioni da me effettuate nessuna lapide con epitaffio e nessun sepolcro risulta esistere all’interno ed esterno della cappella. Viene da chiedersi se effettivamente il canonico sia stato sepolto in questo luogo…
E’ mai possibile che nessuno abbia eretto un monumento o lapide dedicatoria al sacerdote Spagna? Eppure il suo rango di canonico, con una cospicua rendita mensile, poteva permettersi un ben modesto sepolcro funebre. Nemmeno il clero e il benestante fratello don Mattia Spagna hanno pronunciato un epitaffio? Oppure c’è stata un vera e propria damnatio memoriae?
Credo, invece, che la salma del canonico in tempi meno turbolenti sia stato riportata nel sepolcro di famiglia nella chiesa di Santa Maria Maggiore dove tuttora riposa in attesa della beata resurrezione.

di Paolo Francesco Magnanti
@ Tutti i diritti sono riservati

(Tomba a terragna della famiglia Spagna, Chiesa di S. Maria Maggiore, Atena Lucana)

Bibliografia e fonti:

Paolo Abbate, Il colera del 1836 - 1837 a Napoli, nel Cilento e nel Vallo di Diano. ed. Palladio, 1998.
ASSM, (Archivio Storico di Santa Maria Maggiore di  Atena Lucana),  Registro dei morti del 1837.